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"Tweet dell’anima " - Ivan Verč su Laboratori di Poesia

 

Tweet dell’anima di Ace Mermolja (Vita activa – Est-Ztt, Trieste 2019).  articolo reperibile QUI

La raccolta di poesie di Ace Mermolja Tweet dell’anima (Vita activa – Est-Ztt, Trieste 2019), ottimamente tradotta da Darja Betocchi, che firma anche un esauriente saggio introduttivo, è una narrazione dell’anima. Non si esaurisce in poche parole, in slogan ridotti al minimo e alla ricerca dell’effetto garantito. È una presenza diversa, un’esplorazione dell’esserci, come direbbero i filosofi, che non ha nulla a che fare con la ricerca della visibilità effimera in un’inondazione di presenze, erroneamente convinte che la quantità, prima o poi, si trasformi in qualità.

A leggere i versi di Ace Marmolja mi è tornata in mente un’intervista al regista russo Nikita Sergeevič Mihalkov in occasione della presentazione del film Oči černye con Marcello Mastroianni. Alla domanda sul perché i suoi film, molto »russi«, godano di un tale successo, Michalkov non si rifugiò negli stereotipi sulla grande letteratura russa, dalla quale egli stesso aveva tratto molte sue opere (Čechov, Gončarov). Disse semplicemente: “Se parti dagli spazi che conosci, dalla cultura che ti è propria e da una disposizione dell’anima non indifferente nei confronti di ciò che ti circonda, puoi sempre raccontare qualcosa anche agli altri.” Non esite una letteratura universale, esiste solo un’industria universale della letteratura. Guardare, vedere e riflettere sul mondo che ti sta attorno, significa rispondere, responsabilmente, al rumore dei suoi molteplici tweet.

I tweet di Ace Mermolja raccontano la presenza in uno spazio e tempo definiti, dove essere sloveno, sloveno a Gorizia e Trieste e sloveno che vive il confine e nel mondo, significano in primo luogo non cedere all’indifferenza, nella consapevolezza che spazi e tempi possano essere confluenti, spesso confliggenti, il più delle volte complementari. I versi “impegnati” della raccolta sono la testimonianza di uno stato dell’anima, di un effettivo sentire la vita, a cavallo tra letteratura slovena e non e attiva partecipazione alla sua banale e devastante quotidianità. Mermolja non gioca con l’estetica, non scrive versi ermetici, non segue gratificanti sonorità e non scrive parole inutili, intrise di malcelata retorica. Racconta semplicemente la realtà, anche se non c’è nulla di realistico nella sua narrazione, anzi, è pienamente consapevole del pericolo di essere »sedotto dal castello sul colle, lontano dalla realtà« ed appagato dall’avere una “stanza in cui poter quieto assemblare il suo lego in nuove esistenze di rime” (come racconta nel poemetto “Fumando una sigaretta con Ezra Pound”, di grande attualità dopo il caso Handke). Le parole, per quanto possano sembrare inadeguate a raccontare la realtà, non si risolvono mai in puro esercizio formale, sono un atto consapevole di conoscenza.

Sono complementari i migranti, che “si addensano/ dove le genti in un gorgo/ s’incrociano e mischiano/ suoni, colori e dei” e sono complementari le “cellule nel mare” che un Dio “ha impastato in vive masse,/ con perfido gusto per le differenze/ che non s’amano mai”. Non è certo necessario navigare nel Mediterraneo per capire confluenze, collisioni e complementarietà delle nostre esperienze, è sufficiente vivere a Trieste, “mescolanza di questo e di quello,/ di ciò che è e non è”, con l’aspirazione, però, di essere un purissimo “levriero afgano”, come se, inconsapevoli, covassimo “nelle viscere un piccolo fascista”, che poi ci fa vergognare, lo nascondiamo e lo gettiamo “in un sacchetto di pivicì”. A Trieste ci sono solo “meticci”, che “stanno a rotolarsi nella mota/ del passato”, anche se poi, per fortuna, “gli scheletri/ degli uni e degli altri vanno a far un toc’ al Pedocin.”

Non diverso è in Mermolja il rapporto con la patria (quale? Slovenia?, Italia?, Trieste?, confine?), un “acquario d’idiomi” e di “finestre, porte, balconi,/ da cui si udiva/ un miscuglio d’italiano,/ sloveno, friulano”. Per gli uni sei “Francesco”, per gli altri “Ace”, ma tu sei sempre tu, anche se “ancora biascichiamo la storia/ come una gomma scipita”. La vita è “un orticello:/ se ti piace a colori, ci devi piantare verdure/ e fiori”, è un rigoglioso miscuglio, un “casotto osceno” da non aggiustare con “patate disposte in filari,/ simili a dritti e impettiti militari”. Per Mermolja “la patria è confusa mescolanza,/ lontananza”, non necessariamente terra d’origine, sempre incerta, è solo una casa temporanea. A Trieste, la “patria” è una delle molte narrazioni fasulle, che ha trasformato l’identità in un’imperdonabile rinuncia all’autenticità del proprio esserci per davvero.

“Poeta sum”, dice Mermolja, un poeta “della grotta di Platone,/ imbalsamato d’ombre”. È un poeta “impegnato”, ma “spoglio d’ogni idea/ che sappia varcare la mia frontiera”. Come insegna il Filosofo, il poeta non traccia i contorni di un’ipotetica Repubblica ideale, racconta solo la propria non indifferenza, il suo piccolo bonsai nel rumore martellante di troppe inutili parole. I suoi versi sono un appello alla non indifferenza dell’anima. Poco importa, se saranno in pochi a leggerli. A Trieste, dove il “tempo tiene incatenato/ l’indomito fragore del passato”, siamo tutti “stranieri”, anche se “perfino i cuori dei morti imprecano sulla via/ se un piede straniero gli si avvicina”. La Trieste dell’indifferenza è un triste “tavolino Biedermeier con natura morta”. Se la città recuperasse un po’ di memoria, potrebbe essere uno Stilleben tedesco o un tihožitje sloveno. Sarebbe pur sempre una “vita silenziosa”, ma attiva e partecipe nell’anima. Un silenzio fecondo, come si addice ai poeti.

Ivan Verč

Frontiere simboliche e reali nelle personagge di Laura Ricci

Scrive Ornella Cioni su "Articolo 21":

 

Incontrarsi “nelle parole e nell’utopia della scrittura”, attraversare “frontiere linguistiche, sociali, culturali, psicologiche” anche invisibili, interrogarsi sul senso dello spazio e del tempo in cui si è nati, questo è l’invito che ci viene fin dall’esergo del libro di Laura Ricci (Sempre altrove fuggendo. Protagoniste di frontiera in Claudio Magris, Orhan Pamuk, Melania G. Mazzucco, Vita Activa, Trieste, 2019). Questo è il messaggio profondo dei tre autori che l’autrice indaga e il metodo di avvicinamento ai loro testi che mette in atto con una doppia lente: quella della lettrice appassionata ed esperta e quella di una pacata e gentile femminista che conosce ed esercita nelle sue analisi le elaborazioni che la cultura delle donne ha prodotto in questi anni. Adotta pertanto il termine “personagge”, termine sul quale esiste già una letteratura che cita, e sulle personagge  annuncia di volersi fermare con profonda attenzione al linguaggio di chi scrive e con l’atteggiamento già messo in atto da anni dalla critica femminista, che decostruisce e interpreta figure femminili della letteratura mettendo in luce come sono inventate, scritte, rappresentate e da chi. Ma le personagge, si sa, sono anche “voci interiori” (vedi Le personagge sono voci interiori, a cura di Gisella Modica, Vita Activa 2016) e non secondaria è nell’indagine del lavoro l’attenzione all’etereo sconfinamento tra vita e romanzo, che non appartiene solo al solitario esercizio di scrittura di autori e autrici, ma è ben noto alla fervida partecipazione di lettrici e lettori che non solo leggono le vicende di personaggi e personagge, ma a volte si imbattono in figure che leggono per loro la loro stessa vita.

 

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Sul "Primorski" un articolo su Slovenka

 

 

Il primo giornale femminile Slovenka ad Aurisina
Domani 15 settembre alle 18:00 si terrà un nuovo incontro presso l'agriturismo Juna ad Aurisina nell'ambito degli incontri letterari organizzati da Juna in collaborazione con la casa editrice Vita Activa, alla luce del progetto Città che legge - Algy, magnifico lettore, sostenuto dal Comune di Duino Aurisina. Silva Bon e Cecilia Rindech presenteranno la pubblicazione Slovenka. Il primo giornale femminile sloveno (1897-1902). La storia del primo giornale femminile è la traduzione di una monografia curata dalla storica e professoressa Marta Verginella in occasione del 120∞ anniversario del giornale. All'incontro partecipano l'Associazione genitori e figli della scuola elementare V. äcek, l'associazione Casa C.A.V.E., SKD Vigred e l'associazione Libri e salotto. L'ingresso è gratuito.

O prvem ûenskem casopisu Slovenka v Nabreûini
Na turisticni kmetiji Juna v Nabreûini bo jutri ob 18. uri novo srecanje v okviru literarnih srecanj, ki jih Juna prireja v sodelovanju z zaloûbo Vita Activa v luci projekta Citta' che legge - Algy, magnifico lettore, ki ga podpira Obcina Devin Nabreûina. Silva Bon in Cecilia Rindech bosta predstavili publikacijo Slovenka. Il primo giornale femminile sloveno (1897-1902). Zgodba prvega ûenskega casopisa je prevod monografije, ki jo je ob 120-letnici casopisa uredila zgodovinarka in docenta Marta Verginella. Pri srecanju sodelujejo Zdruûenje staröev in otrok Oä äcek, zdruûenje Casa C.A.V.E., SKD Vigred in zdruûenje Libri in salotto. Vstop je prost.

Il Piccolo del 3-10-19 Giulia Basso scrive di "Sempre altrove fuggendo"

 

geografie / il saggio di Giulia Basso

Le "personagge" di Laura Ricci
donne che attraversano confini


A sentir parlare di "personagge" è inevitabile che qualcuno storca il naso con palese disapprovazione. Ma se perfino l'Accademia della Crusca, pur con alcuni distinguo, si è infine pronunciata a favore della declinazione al femminile di alcuni nomi (legittimando, per esempio, i termini sindaca o ministra) forse questa resistenza al cambiamento non è caratteristica intrinseca del linguaggio, che si evolve naturalmente e si arricchisce per connotare i cambiamenti sociali, ma è piuttosto una barriera di tipo culturale, eretta in nome di un purismo della lingua elevato a valore assoluto. Si muove in controtendenza il saggio di Laura Ricci "Sempre altrove fuggendo. Protagoniste di frontiera in Claudio Magris, Orhan Pamuk, Melania C. Mazzucco" (Vita Activa, pagg. 220, euro 15), che sarà presentato dall'autrice oggi, alle 17 a Monfalcone, nell'ambito di "Geografie".Più che di un saggio si tratta di un diario di lettura, che analizza alcuni romanzi - "Non luogo a procedere" di Magris, "Il museo dell'Innocenza" e "La stranezza che ho nella testa" di Pamuk, e "Lei così amata" di Mazzucco - focalizzandosi, in chiave femminista, sulle protagoniste di queste narrazioni, per evidenziarne le caratteristiche di libertà, autonomia e realizzazione di un progetto di vita che le contraddistinguono, anche al di là dell'intenzione dell'autore. Nella prefazione Ricci, che è giornalista, scrittrice e traduttrice, non ha timori nel dichiararsi alla ricerca di "personagge", una scelta linguistica che, evidenzia l'autrice, si può spiegare parafrasando la straordinaria nonna Anka in un passo magrisiano di "Danubio": "nel mio mondo le cose semplicemente succedono". Oltre al loro essere donne le protagoniste di questo saggio vengono definite "di frontiera": non tanto per la loro collocazione geografica, che pure esiste come intersezione e ponte di diverse culture e territori, quanto per la loro disposizione psicologica ed esistenziale: sono "donne che attraversano luoghi, epoche e società in grande trasformazione politica e sociale, a contatto con culture molteplici, costantemente in ascolto del loro desiderio di libertà e realizzazione". Dal romanzo di Magris, Ricci ricava una sorta di genealogia femminile, raccontando Deborah, Sara e Luisa, rispettivamente nonna, madre e figlia, tutte di origine ebraica e legate alla dolorosa storia della Risiera, indagando così diversi risvolti dell'animo femminile, del rapporto madre/figlia, del complesso tema dell'amore intrecciato con la guerra. Ma è forse la quarta "personaggia", un'antenata di Luisa, la più peculiare, perché è modellata sulla figura di una donna realmente vissuta nel 1500, durante la colonizzazione delle Antille: Luisa de Navarrete che, sospettata di stregoneria, sfugge al rogo e all'Inquisizione grazie alla sua intelligenza ed eloquenza. In Pamuk le "personagge" raccontano se stesse, ma attraverso i rapporti tra i sessi e le relazioni familiari gettano luce anche sulla società turca. In Mazzucco infine il gioco si complica, perché la protagonista del romanzo è una donna realmente vissuta, la scrittrice svizzera Annemarie Schwarzenbach (1908-1942). Viaggiatrice indomita, giornalista e fotografa, apertamente lesbica e ribelle, Schwarzenbach è una delle controverse protagoniste della vita culturale bohémien mitteleuropea tra la prima e la seconda guerra mondiale. Giulia Basso

Su Letterate Magazine "Tornare libere in carcere" di Laura Ricci

 

Ancora un’insegnante tra le detenute e un trauma condiviso. Il valore dello scrivere e il reciproco sostenersi nella segregazione di Sollicciano. Un linguaggio che sorprende in tempi di sciatteria linguistica nel libro di Monica Sarsini (che è pure un’artista). Il titolo è “Io e Agnese”, la donna lunatica e vitale con cui ha maggiore feeling

di Laura Ricci

 

Un libro “sottile”, di quella dimensione che si sceglie volentieri perché ci accompagni, senza soluzione di continuità, lungo un viaggio in treno. E al tempo stesso un libro denso, profondo, in cui ogni parola ha la sua ragione di essere nell’economia del tutto, e la sottigliezza non sta solo nello spessore del dorso del volume, ma nella costruzione della struttura del racconto, nel dipanarsi del pensiero e nella cura della forma narrativa. Sto parlando di “Io e Agnese”, l’ultimo libro di Monica Sarsini, che anche si avvale di un saggio sull’autrice di Ernestina Pellegrini.
Il lavoro va a completare una trilogia narrativa scaturita dai corsi di scrittura tenuti dalla scrittrice nella sezione femminile del carcere di Sollicciano, i cui primi due volumi – “Alice nel paese delle domandine” (2011) e “Alice, la guardia e l’asino bianco” (2013) – sono stati pubblicati da Le Lettere di Firenze. C’è però, rispetto ai precedenti libri, uno spostamento, un diverso e originale esperimento di scrittura che non tira in ballo soltanto l’esperienza carceraria, le storie delle donne che frequentano il laboratorio e la relazione tra loro e tra loro e la docente, ma anche il nocciolo più duro, segreto e oscuro del vissuto più intimo e forse irrisolto della narratrice; che rievoca, intrecciata alle vite estreme delle detenute, una sua precoce e altrettanto estrema tragedia familiare: la perdita nell’infanzia dell’adorato fratellino, colpito involontariamente e mortalmente alla nuca da una cartuccia da leprotti scagliata dal suo più assiduo compagno di giochi. E anche nei confronti di quella narrazione del sé che giustamente Ernestina Pellegrini definisce una «poetica del trauma» si fa avanti una sperimentazione più complessa e nuova, in cui la scrittura monologante legata al proprio vissuto non rimane avvitata alla disperazione del proprio io, ma continuamente si intreccia e si raffronta con il vissuto e le storie di Agnese e le altre – Alessia, Daniela, Katia, Laura, Susanna,  Giada, Rosalina, Elisa, Malina – le prigioniere del fuori piuttosto che del sé, creando una poetica del rispecchiamento che rispetto all’io stabilisce un’oggettivazione e una distanza e, rispetto alle altre, un avvicinamento al loro esistere    ....continua