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Orvieto news "Sempre altrove fuggendo". Laura Ricci racconta le protagoniste di frontiera

 

Il testo letterario come creazione di qualcosa di estremamente personale da parte di chi legge, in grado di andare oltre lo strettamente fedele che si propone chi scrive. Lo teorizza Roland Barthes e lo mette in pratica con disinvoltura Carolyn G. Heilbrun mostrando come, a partire da un punto di vista femminista, sia possibile scrivere e leggere la vita e le opere di alcune scrittrici del passato mettendone in evidenza indipendenza, autonomia e originalità. È partendo da questi assunti che Laura Ricci – scrittrice, traduttrice, giornalista – nel nuovo libro "Sempre altrove fuggendo" edito da Vita Activa analizza le protagoniste di pagine contemporanee. "Di frontiera", sia per la loro dislocazione geografica, sia per la loro disposizione psicologica. Sono, infatti, donne che attraversano territori, epoche e società in grande trasformazione politica e sociale, a contatto con diverse culture, costantemente impegnate nel loro progetto di realizzazione...continua

Su Il Piccolo del 5 .09.19 Giulia Basso scrive del Concoso "Elca Ruzzier"

 

Concorso "Elca Ruzzier" 
i migliori racconti 
racchiusi in un libro 
 
Giulia Basso 
La scrittura come testimonianza, come strumento per dare voce alle vite di donne esemplari, che altrimenti passerebbero sotto silenzio, scivolando nell'oblio. È la missione del concorso "Elca Ruzzier. Una donna da non dimenticare", che anche in questa sua quarta edizione ha dato alla luce una pubblicazione che raccoglie i migliori racconti presentati alla competizione letteraria, tra vincitori e selezionati. S'intitola "Se cammini piano", è edita da Vita Activa, e sarà presentata, a cura di Paola Saina, domani alle 16 alla biblioteca Hortis.
Gli 11 racconti racchiusi in questo libro, scrive nella prefazione Gabriella Musetti, sono "spaccati di vita". Sono storie differenti per tipo di narrazione, epoca storica e relative condizioni culturali e sociali, ma in cui è presente un comune motivo conduttore: lo stretto legame tra la narratrice della storia e la sua protagonista. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, che ha fatto guadagnare alla sua autrice, Eliana Rosa Attuoni, il primo premio al concorso, la protagonista è l'infermiera cattolica Irene Sendler, che grazie al proprio coraggio riuscì a salvare oltre 2500 bambini ebrei da morte certa nel ghetto di Varsavia sotto il nazismo. In "Donne dentro", di Carmen Gasparotto (seconda classificata), la protagonista è invece una donna contemporanea: Ornella Favero, esponente dell'Alta Sicurezza con un ruolo istituzionale nelle carceri italiane, con cui l'autrice, che diventa anche personaggio del racconto, condivide l'impegno nel creare un ponte tra i reclusi e il mondo esterno. E ancora c'è il racconto di Ana Cecilia Prenz Kopusar, terza classificata, che si concentra sulla personalità di Marietta Micca Gross, ebrea sefardita di Bosnia, quello di Chiara de Manzini Himmrich dedicato ad Anna Maria Luisa Medici, che ci riporta alla fine del '600 tra le controversie di corti in declino e le ambizioni dell'Impero. O, tornando alla contemporaneità, il testo di Angela Travagli, "La farfalla senza ali", che narra le vicende di Luciana Boschetti Pareschi, fondatrice nel 1974 a Ferrara della prima società scolastica di pallamano femminile. Alla presentazione saranno presenti anche alcune delle autrici, tra cui Carmen Gasparotto, Ana Cecilia Prenz, Ornella Cioni, Chiara de Manzini Himmirich e Lucia Starace. --

su "Il Piccolo" del 7 luglio 2019 "SLOVENKA"


CONSIGLIATO DAL LIBRAIO ---  ILDE KOSUTA   

Slovenka, il primo giornale dalla parte delle donne   

Il libro "Slovenka" in lingua slovena, è stato pubblicato nell'anno 2018 dalla Facoltà di filosofia dell'Università di Lubiana, curato da Marta Verginella. La traduzione in lingua italiana a cura di Irena Lampe invece è uscita quest'anno con la casa editrice Vita activa di Trieste. La rivista Slovenka, in italiano La Slovena, edita a Trieste tra il 1897 e il 1902 fu il primo giornale femminile sloveno e il primo giornale triestino scritto da donne per altre donne. Le redattrici e le collaboratrici erano convinte dell'importanza del contributo femminile al progresso della società. La prima direttrice editoriale fu la giovane triestina Manica Nadligek, maestra, pubblicista, scrittrice e traduttrice. Maestre, scrittrici e poetesse furono le sue collaboratrici che reclamavano il diritto all'istruzione superiore e universitaria, la facoltà di raccontarsi e di esprimere pubblicamente la propria visione del mondo.

 

 

 

 

 

Riscrivere la cultura con sguardo di genere

Scrive Sergia Adamo su Letterate Magazine del 30.07.2019 

È con questo spirito che la casa editrice Vita Activa ha inaugurato di recente la nuova collana di saggistica “Exempla”, diretta da Silva Bon. Non si tratta dell’ennesima nuova comparsa sul mercato editoriale. Non solo perché Vita Activa è un esperimento originale, interessante e importante: un progetto di editoria femminile indipendente che fa capo alla Casa internazionale delle donne di Trieste, ed è frutto di un lavoro comune, di un impegno strenuo e di condivisione di entusiasmo e fiducia nel lavoro intellettuale. La nuova collana e i primi due saggi che comprende rappresentano davvero un contributo significativo per l’intento che evidentemente si prefiggono: quello di scandagliare terreni, dimensioni, episodi poco noti della storia e della memoria culturale, in cui il ruolo delle donne e delle loro esperienze si dimostra cruciale ed emblematico. L’attenzione per ora è concentrata su un contesto di sempre problematica definizione, quale quello di Trieste, tanto celebrato come spazio di multiculturalismo ideale quanto mai abbastanza studiato nelle violenze, contrapposizioni e conflitti che lo segnano in profondità.

Il primo volume, “Trieste: una frontiera letteraria”curato da Katia Pizzi, rappresenta l’approfondimento da parte della curatrice di un percorso di studi iniziato già con un libro del 2001 intitolato A City in Search of an Author, impegnato in una rilettura dell’identità letteraria triestina, in cui gran parte aveva la considerazione del femminile. Questa volta Katia Pizzi propone invece un’antologia introdotta da una sua presentazione e da una interessante cronologia. La prospettiva adottata è apertamente quella di una rilettura, di una ridefinizione: lo ammette Pizzi in una avvertenza preliminare, lo rivelano più che mai la scelta del testi antologizzati e l’interessante cronologia che apre il volume (e le cronologie, si sa, sono strumenti solo apparentemente oggettivi e neutrali, in realtà incorniciano e inquadrano, rileggono la storia e la rinnovano).
L’ambito temporale preso in considerazione (un secolo: 1910-2010) cerca di riconnettere un passato che fatica a uscire ormai dallo stereotipo con un presente che di quel passato continua immancabilmente a nutrirsi, istituendo linee privilegiate di analisi che mettono in primo piano la relazione tra la cultura italiana e quella slovena e le contraddizioni insite in un problematico bisogno di memoria e “ricordo”. Queste linee riemergono nei testi scelti, a partire da Scipio Slataper che racconta le rivendicazioni di italianità legate alle richieste di istituzione dell’Università, e da Joyce e Svevo di cui vengono colti momenti particolarmente destabilizzanti nella descrizione di questa identità, passando per Srečko Kosovel  e France Bevk. Il canone che identifica il secondo Novecento allinea Vegliani, Pahor, Marin, Tomizza, Rumiz, Longo, Magris, nomi d’obbligo, ma presta anche la dovuta attenzione a voci poetiche forse meno note al grande pubblico come Roberto Dedenaro e Gabriella Musetti. La stessa Musetti, con Marisa Madieri e Nelida Milani e con la scrittura brillante e straniante allo stesso tempo di Laila Wadia rappresenta nell’antologia la dimensione della scrittura femminile. La femminilità in senso più ampio però non resta limitata ai passi antologizzati, ma viene ricercata nella presentazione in diversi autori quali Tomizza, Quarantotti Gambini, Marin, a ribadire la linea di analisi che Pizzi aveva inaugurato con il libro precedente...continua

 

 

Su "Il Punto" Carmen Gasparotto scrive di "Io e Agnese"

Io e Agnese

di Carmen Gasparotto

 

Della bellezza di un libro è difficile scrivere, sarebbe come tentare di tradurre la vastità di un cosmo. Negli intrecci delle storie le parole toccano profondità nascoste. Emergono sentimenti per lungo tempo sopiti, presenti ma nascosti a se stessi, vite incrociate al pari di alcuni destini.

Sono solo alcune delle emozioni che suscita la lettura del libro di Monica Sarsini “Io e Agnese” (Vita Activa, Trieste) presentato lo scorso 10 aprile al Caffè degli Specchi. Monica Sarsini, scrittrice e artista visiva nata a Firenze, narra della propria esperienza all'interno della sezione femminile del carcere di Sollicciano dove tiene dei corsi di scrittura. Le storie delle detenute, la storia di Agnese e la storia di chi narra si susseguono e si intersecano. Situazioni di vita (o di non vita) anche quotidiane comuni a tutte le carceri e che hanno a che vedere con l'immobilità del tempo e con la convivenza resa ancora più ristretta dal sovraffollamento. È qui che il corpo si fa gabbia e nello stesso tempo spazio effettivo del contatto con l'altro. Corpi mortificati nel pudore e nell'affettività. Storie di donne con le quali la scrittrice entra in empatia – conoscere loro aiuta a conoscere se stessa – e che raccontano di giornate in isolamento, di gesti di autolesionismo dove il corpo viene tagliato, inciso quasi a voler far uscire dolore e disperazione. Le donne detenute vengono chiamate con il nome del reato commesso “Martina viene definita un tentato omicidio, ma scopre che i reati in carcere sembrano meno gravi di quanto appaiono agli occhi della gente libera, tutte hanno fatto cose sbagliate.”

Due eventi delittuosi segnano la vita della protagonista. Due lutti mai elaborati perché nessuno ha mai chiesto scusa per queste morti, tutti hanno coperto gli eventi con il silenzio. Chi narra vive in prima persona il senso di colpa e l'ascolto delle storie, la condivisione dei sentimenti con le detenute fa ritornare a galla il disagio. Come se, in questo silenzio, tutto l'odio provato da parte della vittima non abbia mai coinciso con un risarcimento anche solo morale dunque con un senso di giustizia. Si dirà “(...) ma il concetto di perdono non si è fatto avanti in me come rimedio (…) Io ho fatto del male soltanto a me stessa, dovrei essere arrestata.” E questo aspetto offre spunti al lettore per riflettere su quanto il fare giustizia non possa, e non debba, risolversi solamente nell'applicazione di una pena.

La scrittura, lo stile personalissimo capace di toccare punti di grande liricità, la prosa sensuale, l'intensità della narrazione sono una componente imprescindibile di questo libro.

Ernestina Pellegrini, nel saggio che fa da postfazione, definisce la scrittura di Monica Sarsini una “poetica del trauma”. Il trauma quale codice di base del linguaggio artistico. Vero è che la vita stessa prima o poi ci traumatizza e, forse, senza trauma si è senza vita. Troppo facile infatti constatare la caduta senza tentare la risalita con tutto quello che comporta. Compreso sentire il proprio dolore e quello dell'altro che ti sta accanto.